La Tempesta

“Quella notte andai a letto molto presto; era un periodo molto duro della mia vita e facevo sempre più fatica ad addormentarmi. Di solito ci riuscivo con l’ausilio del mio migliore amico, il whisky; all’inizio ne bastavano un paio di bicchierini, ma il tempo aveva reso il mio corpo quasi immune a quella ricetta contro l’insonnia. Quella notte ne bevvi quasi mezza bottiglia, alternandola a un paio di sigari e a qualche pezzo di pane con del formaggio. Dopo l’ultimo, generoso sorso crollai quasi di colpo, con il legno del tavolo come cuscino e la sedia come scomodo letto. Come mi capitava sempre più spesso, gli incubi avevano occupato gran parte del mio sonno agitato. Poi, un rumore improvviso mi obbligò a riaprire gli occhi. All’inizio credetti che provenisse da dentro la mia testa, ma quando lo udii di nuovo capì che c’era qualcuno alla mia porta. Con la vista appannata dall’alcol, allungai la mano sul tavolo; mentre afferravo una vecchia pistola, che non credo di aver mai usato, sentii bussare ancora più forte. Lanciai un’occhiata fuori dalla finestra. La notte era buia, fagocitata dagli ultimi strascichi di un rigido inverno. Mi alzai, barcollando, con la mano che faticava a tenere ferma l’arma. Se fosse partito un colpo, quasi certamente avrebbe centrato il mio piede. Giunsi alla porta con la stessa velocità di una vecchia e stanca tartaruga; quando la aprii cercai di puntare la pistola contro la persona che mi aveva ridestato dall’ennesima notte popolata di fantasmi, ma non trovai nessuno. Mi affacciai. Una fitta nebbia sembrava essersi divorata la città. Con la coda dell’occhio mi parve di notare un’ombra svanire dietro alla casa in fondo alla via, ma ero quasi certo che fosse stata la mia mente affogata nel whisky ad averla prodotta. Scossi la testa maledicendo la mia follia e, soprattutto, la mia predilezione per l’alcol, ma sul punto di rincasare abbassai lo sguardo. Ai miei piedi c’era una busta. Mi chinai, rischiando di cadere; dopo aver chiuso fuori di casa ciò che restava di quella gelida notte, ritornai verso il mio giaciglio improvvisato. La breve escursione all’aperto mi aveva intirizzito le estremità. Un paio di bicchieri di whisky contribuirono a ridarmi un briciolo di calore; sarei dovuto tornare a dormire, ma sapevo perfettamente cosa avrei trovato una volta chiusi gli occhi. Scacciai l’idea di rituffarmi in qualche maledetto incubo e accesi il camino, rannicchiandomi contro di esso così tanto da iniziare a sudare. Spinto dalla mia innata curiosità, aprii la busta guardandomi attorno; mi sentivo osservato, come se non fossi più solo in casa.
Guardai il foglio che tenevo tra le dita ancora infreddolite: la carta era gialla, consumata, e le parole erano scritte con una calligrafia incerta. Mi chiesi chi l’avesse lasciata davanti alla mia porta e il perchè, ma alla fine, con l’alcol come compagno di viaggio, iniziai a leggere.

“Avevo navigato per decine di anni e giuro su ciò che ho di più caro che mai, e giuro ancora mai, avevo assistito a una cosa simile. Eravamo salpati da Southampton a bordo del brigantino “Ecate”, vanto della marina mercantile di Sua Maestà, diretti al porto di Savannah, nelle colonie americane. Sapevamo quanto poteva essere ingannatore il Grande Oceano, ma avevamo delle consegne da rispettare ed eravamo pronti a tutto. I primi tre giorni di navigazione si rivelarono tranquilli, addirittura monotoni. A bordo, oltre al capitano e al sottoscritto, nostromo Mark Donovan, c’erano altri dodici uomini. Li conoscevo tutti, ad eccezione dei due mozzi più giovani, che dovevano aver smesso di succhiare il latte materno da pochi giorni a giudicare dalla pelle liscia dei loro visi e dalle espressioni stupite nei loro occhi mentre la chiglia della nave divideva in due le acque davanti a noi. E poi c’era un tizio che aveva pagato una grossa somma di denaro per imbarcarsi come passeggero. Il capitano Smith non aveva mai voluto che qualcuno, a parte i membri dell’equipaggio ovviamente, viaggiasse a bordo dell’Ecate, ma grazie alla generosità di quel misterioso passeggero il capitano aveva saldato un bel po’ di debiti, aveva pagato i nostri salari ed era riuscito a rimettere la “Ecate” in mare. Dal cognome, de la Croix, doveva essere un francese; in seguito appresi che era un nobile: Il barone de la Croix. Non avevo idea del perché un nobile francese avesse scelto la “Ecate” per attraversare l’oceano e non riuscii mai a scambiare qualche parola con lui per scoprirlo. Mai, fino al momento in cui arrivò quella maledetta ed improvvisa tempesta. Quel giorno il sole era alto nel cielo e non soffiava un alito di vento; il ritardo sulla tabella di marcia iniziava a essere preoccupante. Ricordo che il capitano fissava il cielo con aria cupa, imprecando per quella assurda assenza di vento. Fu in quel momento che vidi uscire il passeggero dalla sua cabina. Indossava lo stesso elegante vestito nero con cui si era imbarcato. In bocca teneva un grosso sigaro acceso e un paio di lenti scure gli proteggevano gli occhi dal sole accecante. Mi si avvicinò con un sorriso arrogante stampato sul volto. La sua pelle ambrata emanava uno strano profumo. Non so cosa fosse, ma mi stordì. Ma non quanto la sua voce. Non dimenticherò mai il tono gelido con cui mi parlò.
“Oggi è una gran bella giornata per morire, n’est pas?”
Disse, guardandomi dritto in faccia. Non potevo vedere i suoi occhi, ma sentii un’improvvisa fitta alla testa, come se una mano stesse rovistando dentro di essa. Poi, con un sorriso ancora più agghiacciante del primo, lanciò in aria una moneta d’argento.
“Sei un uomo molto fortunato, mon ami.”
In quel momento, furtivo come un predatore che punta l’ignaro animale per tutto il giorno pronto a saltar fuori all’imbrunire, quando la sua preda si sente più al sicuro, un vento impetuoso sbucò dal nulla, lacerando le vele dall’albero maestro del brigantino. Le nubi, di un grigio tanto torbido da oscurare il sole e l’orizzonte, si addensarono di colpo riversando sullo scafo della “Ecate” grosse gocce di pioggia taglienti come coltelli. Il capitano sbraitò i soliti ordini per una situazione del genere ma nessuno, me compreso, riuscì a muovere un muscolo fino a quando lo scafo non iniziò a rollare. A quel punto una forza 
invisibile e minacciosa mi scagliò contro le sartie. Cercai di afferrare quella collegata all’albero maestro, ma quando ebbi la forza di alzare la testa vidi una gigantesca trave di legno lievitare sopra di me. Il vento aveva sradicato il boma, facendolo vorticare sopra le nostre teste. I due giovani mozzi si strinsero uno tra le braccia dell’altro, incapaci di qualunque gesto che non fosse quello di sgranare un rosario. Mi precipitai verso di loro, ma quando li raggiunsi la randa si era abbattuta su uno dei due per poi volare in cielo con la sua giovane preda. Riuscì a trascinare il secondo in un luogo sicuro anche se, in una situazione simile, non c’era alcun posto su quella nave che poteva fregiarsi di quel titolo. Vidi il carico sbordare dalla stiva ed essere fagocitato dalla spuma del mare, come se un gigantesco mostro marino fosse sbucato dagli abissi per banchettare con il fasciame dell’Ecate e con i brandelli delle nostri carni. Mi guardai intorno. Il capitano era stato sbalzato fuori bordo dalla forza del timone, ormai ingovernabile. Dei miei compagni riuscivo a malapena a udire le loro urla disperate che si mischiavano alle raffiche di vento e ai tuoni che anticipavano, con impetuoso fragore, le saette che squarciavano il cielo con luci accecanti. Anch’io cercai di gridare, ma dalla mia bocca non uscì altro che acqua salmastra e terrore. Mi trascinai sul ponte cassero cercando di raggiungere la plancia di comando, ma fu tutto inutile. Come guidato dall’abile mano di un burattinaio, uno strallo mi afferrò una caviglia e mi issò sopra il fiocco a cui era stato legato. Sollevato a qualche metro d’altezza come una vecchia marionetta e senza alcuna possibilità di liberarmi, non potei far altro che rendermi conto di quanto fragile e impotente fosse la mia vita. Quando riaprì gli occhi il mare era una monotona tavola verdognola. Il vento alitava una dolce brezza che sembrava quasi cullare, nella fitta nebbia, ciò che restava del brigantino. Vomitai acqua e bile prima di riuscire a rialzarmi.
Istintivamente cercai il giovane mozzo, quello che credevo, invano, di avere salvato dalla furia di quell’improvvisa e diabolica tempesta. Poi mi guardai intorno. Il mare non aveva reclamato solo le anime dei due giovani mozzi e dell’anziano capitano. Di quattordici membri dell’equipaggio, io ero l’unico superstite. Scesi in coperta, con gli occhi gonfi di lacrime. Nessuno aveva risposto alle mie invocazioni. Sapevo che là sotto non avrei trovato nessuno vivo, ma dovevo tentare. Le assi scricchiolavano al passaggio dei miei stivali, come se quel poco legno che era rimasto attaccato insieme dovesse spaccarsi da un momento all’altro. Dalla sentina saliva un odore più nauseante del solito e l’acqua di scolo era di un sinistro colore scuro. Mi diressi verso le nostre cabine. Lo scarno mobilio era stato distrutto dalla furia degli elementi. Quella del capitano aveva subito la stessa fine ma quello che vidi in quella del passeggero mi lasciò con gli occhi spalancati e la bocca in una stupida smorfia di stupore. Ero certo di trovare lo stesso sconquasso anche lì dentro; invece la cabina era intatta, come se nessuno vi avesse mai messo piede. 
Intatta, ma vuota. Del passeggero, così come del resto dell’equipaggio, non vi era traccia.
La sola cosa che trovai fu una bruciatura, della stessa dimensione della punta del sigaro che il barone stava fumando quando mi rivolse quelle poche, sinistre parole e, accanto ad essa, la moneta d’argento. Lanciai la moneta il più lontano possibile da me e iniziai a piangere. Poi, con le poche forze che mi restavano, risalii sul ponte infreddolito e spaventato, continuando a chiedermi chi fosse davvero quell’uomo, inorridendo per l’assurda risposta che una voce nel profondo del mio cuore continuava a ripetere. Cercai, invano, di togliermi l’immagine del volto di quell’essere demoniaco dalla mente e mi guardai intorno.
La nebbia sembrava aver inghiottito il mondo. Lo scafo imbarcava acqua in più punti ed ero certo che molto presto l’oceano avrebbe preteso non solo ogni centimetro del fasciame con cui era stato costruito il brigantino, ma anche la mia vita. Mi coricai nel punto in cui avevo visto volare via uno dei mozzi, trascinato prima in cielo e poi negli abissi da una forza non avevo mai incontrato prima, in attesa che giungesse la mia ora. Rapito dal lento scorrere del tempo ripensai al passeggero, all’odore della sua pelle e alla sua voce. Poi, nel momento in cui un timido raggio di sole riuscì a squarciare la fitta coltre nebbiosa, la vidi. Il cuore mi avvampò il petto.
“Terra.” Gridai, con tutto il fiato che avevo in corpo.
Ero solito udire urla di giubilo dopo aver pronunciato quella frase, ma la sola cosa che udì fu un triste e mortale silenzio.”

Dopo aver terminato di leggere quelle parole, trascorsi i giorni seguenti immerso nelle ricerche, cercando di dare una risposta alle mille domande che quella lettera aveva suscitato in me. Studiai quintali di scartoffie, tra Londra e Southampton, sperando di trovare dei riferimenti sul nostromo Donovan, sul brigantino Ecate e sul barone De la Croix, la figura che più incuriosiva. Erano realmente esistiti o, come avevo creduto per giorni, non erano altro che il parto di una mente affogata nell’alcol? Quando ormai disperavo di ottenere una risposta, trovai le informazioni che cercavo; o, almeno, una parte di esse.
Il brigantino Ecate era realmente esistito e per oltre un ventennio aveva solcato le impetuose acque dell’oceano Atlantico, facendo la spola tra Southampton e le coste della Georgia e della Louisiana. Attraverso vecchi diari di bordo, firmati da un certo capitano Smith, ero risalito anche alla figura del nostromo, Mark Donovan, l’unico sopravvissuto alla tragica sorte dell’equipaggio del brigantino. Secondo una notizia trovata in un giornale dell’epoca, l’Ecate aveva attraccato nel porto di Savannah con diversi giorni di ritardo sbucando letteralmente, secondo quanto riportato da diversi testimoni oculari, da una densa nebbia che sembrava galleggiare sulle acque dell’Oceano. L’unica figura su cui non ho trovato alcun riscontro è stato il misterioso passeggero dall’elegante abito scuro. Forse è stata solo la follia del nostromo Donovan a renderlo reale o, forse, e io considero questa versione come quella più attendibile, il passeggero aveva pagato una lauta ricompensa al capitano Smith affinché non annotasse la sua presenza a bordo. Ma allora, che fine aveva fatto quel tizio? Era affogato insieme al resto dell’equipaggio?
L’ultima cosa che vorrei portare alla vostra attenzione, miei cari lettori, è la data in cui, secondo quanto aveva riportato il nostromo Mark Donovan nella sua lettera, è successa la tragedia che ha coinvolto l’equipaggio del brigantino Ecate; era il 14 aprile del 1714, esattamente due secoli fa.”


“Thomas, vuoi davvero far pubblicare questa cosa?”
Thomas Stead sollevò il mento, lisciandosi la spessa barba grigia, senza rispondere.
“Andiamo, sei un brillante giornalista, ma non sei più un ragazzino. Non puoi continuare ad andare in giro per il mondo a investigare su fatti che non interessano a nessuno.”
“Un tempo la mia voce era ascoltata in tutta l’Inghilterra.”
“Ti riferisci agli articoli che hai pubblicato sul Pall Mall Gazzette? Quelli in cui denunciavi la piaga della prostituzione minorile e che hanno avuto, come conseguenza, la legge sull’innalzamento dell’età del consenso?”
“Infatti. Non tutti hanno una legge che porta il proprio nome.”
“La famosa legge “Thomas Stead.” – Disse l’amico, appoggiandogli la mano sulla spalla. – Bei tempi, quelli, ma ormai abbiamo superato la sessantina, Thomas. Ormai siamo solo più dei vecchi scribacchini. Il tempo del giornalismo d’assalto è terminato. Ricordati il motivo per cui siamo qui. Abbiamo la fortuna di essere a bordo del più grande, lussuoso e veloce transatlantico del mondo nel suo viaggio inaugurale e tu te ne stai qui sotto a scrivere un articolo su una storia accaduta duecento anni fa? Io vado sul ponte. Dicono che ci sarà una meravigliosa luna piena, stanotte. Ti farebbe bene prendere una boccata d’aria fresca. Non hai una bella cera, sai?”
“Inizia ad andare. Scrivo ancora un paio di righe e ti raggiungo.”
Rimasto solo Thomas Stead prese una bottiglia di whisky, ma dopo aver fissato il proprio sguardo riflesso tra le ambrate pareti di vetro, la ripose accanto al bicchiere e si alzò. Il suo vecchio amico aveva ragione. Erano passati i tempi in cui le sue parole erano lette e ascoltate in tutta l’Inghilterra, ma qualcosa dentro di lui continuava a ripetergli che non poteva essere stata solo una semplice coincidenza l’aver trovato le risposte che cercava su quella lettera solo la notte prima di affrontare la lunga traversata oceanica che divideva il Vecchio Continente dal Nuovo Mondo. Era stato solo un caso che dopo mesi di inutili ricerche aveva trovato un articolo ingiallito dal tempo in cui si narrava la tragedia del brigantino Ecate e del suo unico sopravvissuto?
Si domandò se avesse fatto bene e non raccontare nulla al suo vecchio amico riguardo alle ricerche che aveva condotto sul barone De la Croix, anche perché lo avrebbe certamente preso per pazzo. Avrebbe dovuto dirgli che, tra gli scaffali della Biblioteca di Londra, subito dopo aver trovato informazioni sulla Ecate, gli era letteralmente caduto sui piedi un antico testo di esoterismo in cui si menzionava un personaggio di fantasia, inventato in Africa ed emigrato in America Centrale durante le deportazioni degli schiavi?
Scuotendo la testa, si avvicinò alla cassaforte della cabina e la aprì. Ne tirò fuori un foglio, che rilesse a bassa voce con una certa apprensione.
“Baron la Croix non è altro che uno dei tanti nomi del Baron Samedi, un Loa, uno spirito del culto Vudù, considerato dagli appartenenti a quella religione come il traghettatore dei morti; viene sovente raffigurato con un cappello a cilindro bianco, un vestito nero, occhiali scuri e con in bocca un lungo sigaro…”
Prese il foglio, lo sistemò in mezzo a quelli che costituivano l’articolo che avrebbe inviato al giornale per la pubblicazione, e mise tutto sotto la giacca. Il suo vecchio amico aveva ragione. Era troppo vecchio per correre dietro ad antiche leggende e sciocche superstizioni. Avrebbe gettato tutto in pasto al mare e si sarebbe lasciato alle spalle tutta quella storia. Articolo compreso. Chiuse la porta della cabina, ma anche se non voleva i pensieri lo seguirono lungo la scalinata che dalla prima classe conduceva al ponte principale. Fu in quel momento, con l’immagine dell’ombra che aveva intravisto vicino a casa sua quella notte materializzarsi nella mente, che lo vide.
Sgranò gli occhi, incredulo, mentre osservava, davanti a sé, un uomo alto con indosso un elegante abito nero. Ne intravedeva solo il profilo, ma era chiaro dall’aroma e dal sottile filo di fumo che saliva verso il soffitto che stava fumando un sigaro, mentre nella mano destra teneva un cilindro di velluto bianco. Gli appoggiò una mano sulla spalla e lo obbligò a voltarsi.
“Ma tu sei…”
In quell’istante il transatlantico urtò contro qualcosa; il forte contraccolpo lo fece cadere in ginocchio, impedendogli di terminare la frase. Quando rialzò la testa quell’uomo, in piedi davanti a lui, lo fissava attraverso due lucide lenti nere.
“Bonsoir, mon ami. – Disse in perfetto francese. Poi gli sorrise, soffiando fuori dalla bocca una densa nuvola di fumo. – Non crede anche lei che sia una gran bella nottata per morire?”
Thomas si appoggiò alla balaustra di legno pregiato e, a fatica, riuscì a mettersi in piedi.
“Chi sei?” Gli chiese con voce tremante, mentre le urla di molti passeggeri si propagavano per i vari ponti in cui era suddiviso il transatlantico. Per quanto fosse terrorizzato, non riusciva a muovere un muscolo.
“Sai perfettamente chi sono.” Rispose l’uomo mentre si chinava a raccogliere un foglio tra quelli che erano caduti dalla tasca interna della giacca del giornalista.
“Eri tu… Davanti a casa mia… La lettera…”
“Esatto, mon ami. Baron Samedi, a votre service. – Disse con un tono di voce che di umano non aveva nulla. – Ho un’infinità di nomi, ma questo è di gran lunga il mio preferito.”
Mentre parlava lanciò una moneta d’argento nell’aria. Thomas cercò di parlare, ma le sue labbra erano come sigillate. Si limitò a osservare la moneta che ritornava nel palmo della mano dell’uomo che l’aveva lanciata, respirando sempre più a fatica.
“Io sono solo un umile messaggero, mon ami, un volgare emissario del Destino. – Si voltò, dandogli le spalle. – Monsieur Donovan è stato un uomo fortunato, duecento anni fa. E anche il tuo vecchio amico, questa notte, lo sarà. Purtroppo il Fato ti è avverso; je suis désolé, mon ami.”
Un secondo scossone fece precipitare Thomas lungo la scalinata. Decine di persone gli correvano accanto urlando, con gli occhi iniettati di terrore, rischiando di calpestarlo. Nella confusione riuscì a comprendere solo “Il Titanic sta affondando.”
Si passò una mano sulla nuca. La caduta e il conseguente violento impatto contro il pregiato marmo della scalinata gli avevano provocato una profonda ferita alla testa; un copioso rivolo di sangue gli finì sugli occhi, annebbiandogli la vista. Si pulì la faccia con la manica della giacca; quando tornò a vedere l’uomo con l’elegante completo nero era appoggiato al muro in cima alla scalinata, intento a far scorrere la moneta sulle nocche delle dita come un abile prestigiatore. Rideva e fumava mentre, accanto a lui, uomini, donne e bambini cercavano di sfuggire alla loro triste sorte.
Lo scafo del transatlantico si spezzò all’improvviso.
Thomas si voltò, osservando inorridito il baratro nero che stava per inghiottirlo. Con le poche forze che gli erano rimaste si aggrappò alla balaustra, mentre le gambe fluttuavano nel vuoto. Chiuse gli occhi ripensando alla lettera, all’ombra che gliel’aveva consegnata e alla storia che aveva scritto e che nessuno avrebbe mai letto. Con le lacrime che gli rigavano il volto li riaprì, lanciando un ultimo sguardo al grande lampadario in cristallo che stava per colpirlo. Per un attimo gli parve di vedere un uomo con indosso un completo nero e un cappello a cilindro bianco che, incurante di ciò che gli accadeva intorno, fumava un sigaro lanciando ripetutamente in aria una moneta d’argento.
L’acqua iniziò a sfiorargli la punta delle scarpe nel momento in cui udì distintamente le parole che lo avrebbero accompagnato nelle profondità degli abissi.
“Adieu, mon ami.”

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Credits: Alice Borio

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